“Il desiderio di entrare dentro l’angoscia che dilania L’uomo dal fiore in bocca, mi ha spinto ad indagare un testo del 1923 su una via contemporanea, ricercandone la modernità: la condizione dei malati terminali cui viene dato un tempo e che oggi si sono moltiplicati dagli anni di Pirandello. Lo sviluppo di questa idea condurrà ad una seconda parte, che prenderà vita dopo l’uscita di scena dell’avventore per l’arrivo del suo treno”, così Vincenzo Pirrotta riassume il percorso creativo drammaturgico che, partendo dal celeberrimo atto unico Premio Nobel agrigentino, lo ha condotto a concepire e scriverne il sequel, anzi l’epilogo in sette movimenti: Nella mia carne.
Pirrotta indaga dunque la modernità della pièce pirandelliana e apre, nella riscrittura drammaturgica, sette finestre su sette vite inventate: proprio quelle che l’uomo dal fiore in bocca avrebbe voluto vivere. L’artista racconta tutta la frenesia e l’angoscia di quell’uomo che si aggrappa alla banalità del quotidiano per cercare di rintracciare una superiorità della vita sulla morte. Su una scena buia, in una anonima stazione della provincia siciliana, il protagonista dialoga con l’avventore, interpretato da Giuseppe Sangiorgi, mentre incombe sui due una luce viola che si abbassa lentamente, fino a rivelare la sua forma: è un fiore, dal nome dolcissimo eppure terribile: epitelioma.
“Dopo una pausa di silenzio e sospensione, – scrive ancora Pirrotta nelle note allo spettacolo – la scenografia, costituita da pareti mobili di lastre di raggi X, si stringerà attorno all’uomo dal fiore in bocca in un movimento continuo e lento, ponendolo in una condizione sempre più claustrofobica. Da questo momento racconterà i suoi ultimi sette giorni. Tra un giorno e l’altro, tra una vita e l’altra, mostrerà sempre più l’avanzare della malattia e il suo consumarsi”.