Clinica, ovvero i primi nove venerdì del mese

Calendario rappresentazioni

Spettacolo vincitore bando drammaturgia 2023
di Valeria La Bua

con Maddalena Serratore, Valerio Santi
mise en espace a cura di Marta Cirello
produzione Teatro Stabile di Catania

Scrissi Clinica in un momento di profondissima crisi, umana e artistica.
Quante domande che si agitavano in me, in quel momento così difficile. Avevo
davvero qualcosa da dire? C’era in me ancora la necessità di fare teatro? Ma,
soprattutto, ne avevo ancora la forza? Il mio corpo, il luogo del sacro in cui il teatro
avveniva e avviene, reggeva ancora? Mi sono confrontata con la disperazione di un
corpo malato e, in un certo senso, ho risolto la mia crisi interiore. Ho costruito un
personaggio, Sara, una ballerina, capace di abitare la sua crisi come un tabernacolo.
In lei, però, la vocazione (come diceva Nina nel Gabbiano) è più forte del dolore e del
pianto, più forte della morte stessa.
Ne venne fuori un linguaggio frammentato, di prosa e di poesia, che esitava a dirsi.
Ne rimasi sorpresa: volevo scrivere un monologo, ma in fin dei conti non lo era; il testo
mi era sfuggito di mano, prendendo una direzione tutta sua. “A me mancano le parole
/ io non sono non sono parlante” – dice la protagonista. Ed esita a ricomporre il suo
dramma, che si snocciola in stazioni (i venerdì) come una lunga via crucis; ma che alla
fine verrà spiegato davanti al pubblico come una meravigliosa tela dipinta.
L’incomunicabilità è uno dei temi principali di questo testo. Un testo affollato di
personaggi o, meglio, di rozzi passanti; molti dei quali non hanno neanche un nome.
Uomini e donne immersi nella quotidianità, incapaci di vedere oltre la legge dell’utile
e del pragmatico. Non ci sono rapporti veri, in questo testo, a parte uno: e si tratta di
un dialogo che, tuttavia, è avvenuto nel passato (quello con suor Clementina). Per il
resto, l’umanità si confronta sotto leggi di pressappochismo e indifferenza. Quanto
più la protagonista eleva il suo detto nel linguaggio del poetico e del sacro, tanto più
il contorno umano fa esaltare la bestialità del prosaico e del contingente.
Un conflitto che esplode, in ultimo, come questione generazionale. Sara non può
tornare a ballare. E’ impossibilità fisica? O un’impossibilità imposta dagli altri, per
tempistiche storiche sfavorevoli? O, ancora, è per pura incomprensione, perché l’arte,
comunque, non è una cosa importante, utile? “Bisogna accontentarsi”, le viene detto.
Ma perché non ci viene permesso di fare ciò per cui ci sentiamo chiamati? Ecco il
dramma di una vocazione profonda, ma negata.
“Guardatemi ora. Voi siete gli stessi che mi avete insegnato. […] / bisogna fare
tutto questo perché è giusto ed è il modo riconosciuto di stare al mondo / tu non sai
stare al mondo, Sara”
Davanti a questa impossibilità, perché ostinarsi a fare teatro? Perché ricollegarsi
al sacro? Sara dice che il teatro “è liturgia di un gioco perfetto”, e che bisogna “fare
silenzio”. Non c’è una vera risposta, forse. Eppure, chi è andato in scena almeno una
volta nella sua vita, avrà avvertito quel senso di mistero che il pubblico coglie
immediatamente, anche senza l’uso della parola. Il mistero di esercitare un
sacerdozio che dopo poco, un’ora o due, sarà finito, e che non potrà mai più
ripetersi, se non nella memoria di coloro che vi hanno partecipato.
Sara si affida al Sacro Cuore di Gesù. C’è una dimensione spirituale in cui avviene
l’inspiegabile. Bisogna cercare nel pozzo, nel silenzio. Per avvicinarci al mistero.
Valeria La Bua

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