1921-2021. Si chiude un secolo iniziato con una morte: l’omicidio di Nino Martoglio, e con una nascita: Gaetano Napoli dà vita alla “Marionettistica fratelli Napoli”; questo spettacolo è un funerale ed un battesimo mischiati insieme.
“L’ultimo degli Alagona” è alcune cose insieme: il testo è uno dei pochissimi scritti e diretti da Martoglio in italiano, vide la luce nel 1908 per “i Filodrammatici” di Milano e col “tragico” Ermete Novelli come protagonista; è anche l’unico suo testo in cui appare un preciso riferimento storico sullo sfondo dell’azione scenica; queste novità per Martoglio sono la reazione ad una crisi di crescita, da qualche anno lui e Giovanni Grasso hanno separato le proprie strade, il successo nazionale ha creato prospettive divergenti. Sono gli anni in cui Martoglio sta inventando ciò che in Italia non esiste ancora: la regia; ma anche Grasso sta perfezionando qualcosa di mai visto nel teatro italiano: un personalissimo e rigoroso “sistema di azioni fisiche e vocali” plasmato dalla propria esperienza nell’ Opra dei pupi catanese. È questa grammatica vocale e gestuale che consente a Grasso e al suo ensemble di varcare l’ennesima barriera linguistica e diventare un fenomeno internazionale; il “sistema” di Grasso poteva fare a meno di testi raffinati, per la drammaturgia fisica dell’attore-pupo il testo è solo una delle tante componenti dello spettacolo, le battute sono solo pretesti per azioni vocali da “parraturi”. Il 1908 per Grasso è l’anno della tournee russa: Pietroburgo, Mosca, Odessa, nelle tre città incontra nell’ordine: Mejerchol’d, Stanislavskij, Craig e Babel con conseguenze imprevedibili; tra il 1900 ed il 1921 nel teatro catanese succede qualcosa di paragonabile a ciò che negli stessi anni accade nel teatro moscovita: Catania come Mosca, Martoglio e Grasso come Stanislavskij e Mejerchol’d. Anche questo è “L’ultimo degli Alagona”: due tradizioni teatrali europee che diventano una sola.
Attori di legno e attori di carne. “L’ultimo degli Alagona” è il riconoscimento del Teatro Stabile di Catania alla ricerca teatrale sulle dialettiche tra le azioni fisiche e vocali dell’attore e quelle del pupo in alleanza col suo “maniante”, questa ricerca è stata condotta fin dal 1994 dalla Marionettistica fratelli Napoli e Fabbricateatro lungo nove spettacoli precedenti, fin qui credevamo di esplorare una frontiera del teatro contemporaneo, di navigare sulla foce del fiume già al confine col mare, eravamo invece alla sorgente, in cima alla montagna; senza saperlo eravamo all’origine di una tradizione che, come l’ermafrodita del mito platonico, è arrivata a noi rigidamente separata. “L’ultimo degli Alagona” è quell’ermafrodita.
Elio Gimbo
Note di regia - di Elio Gimbo
“Se la storia degli altri diventa la tua storia, hai cominciato a comprendere il mondo”. Questa frase di Errico Malatesta esprime il mio personale debito verso una schiera di donne e uomini che all’inizio del ventesimo secolo, qui nella nostra città, seppero inventare “il trucco e l’anima” di una nuova forma di teatro, un nuovo teatro che in poco tempo da cittadino diventò fenomeno addirittura internazionale, per poi, dopo la loro morte, raffreddarsi come magma diventando tradizione. Come possiamo pensare a quei fondatori di una tradizione e al senso delle loro scelte? Adopero un’immagine: cavalieri che brandivano spade d’acqua con cui toccare i cuori dei propri spettatori. Tutto sommato di quell’esperienza artistica e umana la tradizione si riduce solo a dei testi, non al senso che la originò; il senso deve definirlo volta per volta ciascuno di noi, anche tradendo la convenzione. E’ in questo tradimento che risiede la nostra identità professionale.
1921-2021: un secolo che inizia con una morte – l’omicidio di Nino Martoglio – e con una nascita – Gaetano Napoli dà vita alla “Marionettistica fratelli Napoli” -, si chiude idealmente qui e adesso con questo spettacolo.
Ognuno di noi è figlio del lavoro di qualcuno. Nino Martoglio e Gaetano Napoli per appagare la personale urgenza di un teatro nuovo, seppero fare virtù della necessità di elaborare un passato accettato solo in parte, sapevano che conquistarsi un’eredità significa trasformarla con la propria pratica superando gli ostacoli materiali del presente; nella pratica del lavoro teatrale tradizione equivale a tecnica, una parola umile ed efficace; la tecnica è lo strumento per superare quelle frontiere che chiamiamo “stili”, e per questa via scoprire quei principi che ricorrono costanti sotto le differenze.
Questo “l’ultimo degli Alagona” è tante cose insieme: il testo è una dei pochissimi scritti e diretti da Martoglio in italiano, fu messo in scena nel 1908 per “i Filodrammatici” di Milano e col “tragico” Ermete Novelli come protagonista; è anche l’unico suo testo in cui appare un forte riferimento storico sullo sfondo dell’azione scenica, queste novità per il regista sono la reazione ad una crisi, un anno e mezzo prima lui e Giovanni Grasso hanno separato le proprie strade, il successo nazionale ha creato prospettive divergenti. Sono gli anni in cui Martoglio sta inventando ciò che in Italia non esiste ancora: la regia, perché questo sono i suoi testi, nient’altro che piani di regia; ma anche Grasso sta perfezionando qualcosa di mai visto nel teatro italiano: un personalissimo e rigoroso “sistema di azioni fisiche e vocali” direttamente attinto dalla propria esperienza artistica: L’ Opra dei pupi catanese. E’ questa grammatica vocale e gestuale che consente a Grasso e al suo ensemble di varcare l’ennesima barriera linguistica e diventare un fenomeno internazionale; il personalissimo “sistema” di Grasso poteva benissimo fare a meno di testi raffinati, per la drammaturgia fisica dell’attore-pupo il testo è solo una delle tante componenti dello spettacolo e nemmeno la più importante, le battute sono solo pretesti per azioni vocali da “parraturi”. Il 1908 per Grasso è l’anno della tournee russa: Pietroburgo, Mosca, Odessa, nelle tre città incontra nell’ordine: Mejerchol’d, Stanislavskij, Craig e Babel con conseguenze imprevedibili; tra il 1900 ed il 1921 nel teatro catanese succede qualcosa di paragonabile a ciò che negli stessi anni sta accadendo nel teatro moscovita: Catania come Mosca, Martoglio e Grasso come Stanislavskij e Mejerchol’d. Anche questo è “l’ultimo degli Alagona”: due tradizioni teatrali europee che diventano una sola.
Attori di legno e attori di carne. “l’ultimo degli Alagona” è un prezioso riconoscimento del Teatro Stabile di Catania alla ricerca sulle dialettiche possibili tra le azioni fisiche e vocali dell’attore e quelle del pupo in alleanza col suo “maniante”, questa ricerca è stata pazientemente condotta fin dal 1994 dalla Marionettistica fratelli Napoli e Fabbricateatro lungo nove spettacoli, fin qui cosa avevamo imparato? Non si valuta mai abbastanza come l’Opra catanese sia l’unica forma teatrale italiana vivente a possedere una riconoscibilità internazionale; la sua esistenza, tutelata perfino dall’Unesco, in giro per il mondo è una consapevolezza diffusa, alla pari e forse più del teatro balinese, del Noh, del Kabuki, dell’Opera di Pechino; fin dai primi anni quindi ci abituammo alla presenza di turisti stranieri attratti dal fascino di un’esperienza glamour, le reazioni degli spettatori stranieri per noi divennero un punto di riferimento, ci confermarono quanto fosse importante esplorare a fondo la drammaturgia delle azioni per superare la barriera linguistica, con la pratica imparammo a governare l’alleanza o la dialettica fra flussi narrativi del testo parlato e delle azioni fisiche; abbiamo esplorato quella che fin qui credevamo essere una frontiera del teatro contemporaneo, pensavamo di navigare sulla foce del fiume già al confine col mare, non sapevamo di esserne invece alla sorgente, in cima alla montagna; senza saperlo eravamo all’origine di una tradizione che, come l’ermafrodita del mito platonico, era arrivata a noi rigidamente separata. “L’ultimo degli Alagona” è quell’ermafrodita.
Un vecchio bambino chiamato Novecento si aggira nello spettacolo. La pelle del suo volto è raggrinzita come quella dei vegliardi ma l’energia, le movenze e l’agilità sono del bambino. Dentro a ciò che chiamiamo ventesimo secolo abitano tanti Novecento e non per forza coincidono tutti con esso, qualcosa nasce prima e qualcos’altro è morto da poco; c’è un Novecento italiano che inizia con i volti dei Mille e di Garibaldi – l’evento storico evocato nel testo di Martoglio – e si conclude con i volti dei contadini meridionali emigrati verso Torino e il nord industriale. Ma quale è stato lo zeitgeist, lo spirito che ha animato, scosso, insanguinato questo bambino anziano che si aggira nello spettacolo? Quale verità trasformata in sentimento può esprimere a noi che ne abbiamo vissuto la splendida agonia? Novecento è stato il secolo del mito adolescente della rivoluzione popolare, violenta o pacifica ma comunque collettiva e palingenetica. Prima e dopo di Novecento nella vita si era – e si è – più o meno soli dinanzi al dio e alle sue incarnazioni storiche, nei momenti cruciali ci si trovava – e ci si trova – come alla nascita e alla morte: soli. Il concetto di rivoluzione esisteva anche prima di Novecento ed era un concetto religioso. San Paolo pensava che rivoluzione fosse cambiare noi stessi per appartenere alla “stessa razza di Dio”; il Gesù di Giovanni ci dice che “dobbiamo rinascere una seconda volta”; Il concetto alla sua radice esigeva una radicale e solitaria trasformazione di se stessi; la stessa redenzione popolare che per secoli è stata la visione-guida del popolo ebraico nel mito era affidata alla venuta di un Messiah, un uomo solo può cambiare il destino di tutti. Con Novecento il Messiah è diventato il popolo, il mito fece il suo nido nella comunità organizzata e divenne utopia; si diceva: “uniamoci in nome di una necessità comune e facciamola diventare una visione di società, nella lotta non saremo mai soli, agiamo uniti e potremo davvero trasformare questa realtà che rifiutiamo; il senso della nostra vita sarà la lotta e se arriverà la morte la accoglieremo danzando con i nostri sogni ancora intatti.” Questo è il sentimento che scolpirono nei loro cuori i milioni di giovani rivoluzionari di professione che, ognuno nel proprio angolo di Novecento, costruirono la propria rivolta; e questo impulso ha investito tutte le attività dell’uomo, chiunque con Novecento ha avuto la sua bella lotta da portare avanti, una materiale necessità personale da trasformare in concreta lotta comune, in bisogno di comunità: cambiamo noi stessi per cambiare il mondo.
Anche Garibaldi fu un giovanissimo rivoluzionario di professione, l’eroe dei due mondi; il suo Novecento era cominciato nel 1836 in Brasile, quando, da pirata-guerrigliero al soldo della Repubblica del Rio Grande, di lotta in lotta arrivò fino in Uruguay per combattere i “Blancos”, ricchissimi proprietari terrieri, al fianco dei “Colorados”, liberali assetati di giustizia sociale; le prime camicie rosse furono quelle della Legione Italiana di Garibaldi, un piccolo reggimento di giovani italiani fuoriusciti, rivoluzionari militanti al servizio della causa universale della libertà dei popoli dalla tirannia, divennero famosi per il valore dimostrato durante l’assedio di Montevideo, le loro camicie erano rosse perchè confezionate con la stoffa usata dai macellai per gli abiti da lavoro. Novecento ha avuto anche il volto del tenente Carlos Prestes e dei soldati della sua “colonna Prestes”, un reggimento ribelle dell’esercito brasiliano che, negli anni ’20 durante la “rivolta dei tenenti”, per tre anni tenne in scacco l’intero esercito regolare con una tattica di continui spostamenti in un territorio immenso e complicato come quello brasiliano, tra il ’24 ed il ’27 i ribelli e le loro famiglie percorsero qualcosa come 30.000 km, per lo più a piedi, nel cuore della foresta amazzonica o tra le steppe del Sertao, si ritirarono senza aver mai ricevuto una sconfitta sul campo. In tempi più recenti Novecento per tutti è stato il volto fiero di Che Guevara, il Garibaldi del Sudamerica, ma sul campo vero di quella rivoluzione il volto di Novecento era stato soprattutto quello di Camilo Cienfuegos, la vera anima dei “barbudos” di Castro; il giovane figlio di un sarto che con l’esempio, sotto il fuoco dei proiettili sulla Sierra Maestra, diventò in fretta il vero leader militare dei ribelli combattenti; poco tempo dopo la vittoria il suo aereo s’inabissò nel mare tra la capitale e la punta della Florida, aveva appena 27 anni; ancora oggi il giorno della sua morte, da centinaia di barchette, i cubani cospargono di fiori bianchi le onde del mare di fronte a l’Avana.
Ma adesso che la stella cometa di Novecento è scomparsa, lasciando donne e uomini a subire gli stessi torti di chi li precedette ma senza nessuna delle loro utopie, cosa rimane ai viventi? Probabilmente l’essenziale, cioè noi. Anche adesso come cento anni fa qualcosa muore e qualcosa nasce. Chi muore con Novecento? Il padre e il figlio dello spettacolo. Il mito della rivoluzione adolescente si è incarnato come lotta generazionale tra un’autorità patriarcale repressiva, ingiusta, feroce, o soltanto inadeguata con le sue ridicole rigidità formali e figli maschi ribelli assetati di utopia, concreti e messianici allo stesso tempo, raramente in grado però di rimanere a lungo fedeli ai propri sogni di gioventù o destinati a fallire in un’orgia di violenza. Zeus contro Kronos, Kaos contro Kosmos. Un mito maschile, è questo che muore. Ciò che nasce invece siete voi qui adesso, attori e spettatori, l’esempio di due comunità riunite intorno ad un obiettivo comune e al di sopra delle differenze di genere e di età: tornare ad essere vivi garantendo la salute di tutti. Tutti noi sappiamo senza bisogno di dircelo che il motivo che ci porta ad essere qui adesso insieme, non è soltanto “lo spettacolo”, ma la realizzazione di una personale scelta di vita che nutriamo di ostinazione durante questa dura prova che ci tocca attraversare, noi sappiamo che la vera posta in gioco è affermare tutti insieme la conquista della nostra differenza.
Superata questa arriverà ben presto un’altra lotta comune, anzi, ci siamo condannati; la prossima imminente rivoluzione sarà necessariamente di comunità attive, come lo è un gruppo teatrale; e per fortuna i volti che scalderanno i cuori e appariranno sulle magliette dei giovani del futuro, non avranno più il profilo tenebroso e sanguinario di Baffone, né la barbetta scapigliata del Che; nel mare magnum della comunicazione contemporanea tra imbonitori e nuovi profeti, a offrirci una battaglia impossibile da rifiutare se non vogliamo l’apocalisse, a spingere tutti noi ad affrontare la “rivoluzione obbligatoria”, avanza il volto ispirato di una diciottenne svedese; è un volto pieno di una intensità nuova, sconosciuta in quelli di Novecento; tutto in lei sembra portatore di una grazia che pare sorgere per la prima volta nella storia.
Elio Gimbo
l’ultimo degli Alagona – Teatro Stabile di Catania
Maggio 2021
Perché i Pupi ne L'ultimo degli Alagona - di Alessandro Napoli
Alessandro Napoli
Perché i pupi di tradizione catanese nell’adattamento de
L’ultimo degli Alagona di Nino Martoglio.
Quando con Fiorenzo Napoli, Direttore Artistico della compagnia di pupari cui mi onoro di appartenere, Nino Bellia, Amico carissimo e con me responsabile dell’adattamento, ed Elio Gimbo, ideatore e regista dello spettacolo, ci sedemmo a tavolino per “concertar l’impresa”, dopo aver considerato la contemporanea ricorrenza di due centenari (morte di Nino Martoglio e fondazione della Marionettistica dei Fratelli Napoli), il primo interrogativo che mi posi fu quello di una presenza dei pupi catanesi che sposasse le seguenti esigenze. Da una parte sostenere il lavoro registico della dialettica fra i due linguaggi teatrali dei pupi e degli attori e dall’altra ritrovare personaggi e vicende del repertorio cavalleresco tradizionale che fossero “specchio” fondativo e / o avatar dei personaggi e delle vicende messe in scena dal drammaturgo belpassese. Ovviamente, a far da medium metastorico fra passato e presente, fra testo martogliano di base e scelte operate nell’adattamento, fra universo dei pupi e universo degli attori sarebbe stato Peppininu, la maschera tradizionale dell’Opira catanese, che in questa messinscena avrebbe armonizzato in sé tre anime: quella della felice scrittura di Nino Bellia, quella dell’apporto della tradizione catanese dei pupi, mediata dalla mia scrittura, e infine quella della sempre fertile improvvisazione sulla scena di mio cugino Fiorenzo nella sua veste di parraturi.
Sul primo fronte, la dialettica dei linguaggi teatrali, fronte del resto già ampiamente sperimentato e collaudato in molte avventure precedenti condivise dalla Marionettistica Napoli con Elio Gimbo e Nino Bellia, oltre a continuare a far rimanere visibili e scoperte le dinamiche del parrari e maniari i pupi, senza cortine, quinte e cieli che nascondessero al pubblico manianti e parraturi, decidemmo con Fiorenzo di rappresentare i personaggi di don Blasco d’Alagona, di Filippo suo figlio, di don Artale, di Carlo Rao, di sua moglie Teresa, di don Federico Chiaramonte, di Fidenzio, di Romero e del commissario di polizia non con costumi d’epoca ottocenteschi filologicamente ricostruiti, ma vistuti comu ‘i pupi, cioè con l’abbigliamento previsto dal codice figurativo tradizionale dell’Opira catanese per personaggi di uguale o corrispondente carattere e rango sociale. La dialettica pupi – attori veniva poi ulteriormente sottolineata da una sorta di corrispondenza ideologico – generazionale: i codici teatrali dei pupi avrebbero rappresentato i personaggi più ancorati al “vecchio” mondo e gli attori invece quelli del mondo “nuovo”: l’ardente Maria Rao e Violante (personaggio mirabilmente “espanso” da Nino Bellia), Madre – nutrice francamente aperta alle novità interclassiste e rivoluzionarie. L’ambivalenza del personaggio di Filippo, parzialmente legato al mondo “vecchio” ma “iniziato” e svezzato a quello nuovo da Maria (con la benedizione di Violante) sarebbe stata risolta dalla contemporanea presenza di un doppio: Filippo Pupo e Filippo Attore. Infine, la cecità finale di don Blasco d’Alagona ci avrebbe consentito di esibire uno dei pezzi più belli dei nostri pupi storici, che è anche uno degli esempi più significativi del magistero teatrale e dei trucchi scenici dell’Opira catanese: la testa del re Senapo d’Etiopia con gli occhi mobili che consentono di rappresentare a vista l’accecamento.
Sul secondo versante, quello cui mi sono dedicato con maggior peso di responsabilità, memore del fatto che “Havi raggiuni ddu certu prufissureddu ca canusciu jù, ca dici ca ‘nte storii d’i pupi si po’ attruvari la storia di ogne cosa” (era questa una battuta di Peppininu poi tagliata nell’adattamento per esigenze di brevità), scelsi di scrivere una scena che riconducesse agli eventi e al clima di attesa in Sicilia di Garibaldi e dell’impresa dei Mille e due scene che rispecchiassero personaggi e stati d’animo sia del conflitto generazionale fra don Blasco d’Alagona e suo figlio Filippo, sia dell’amore di quest’ultimo per Maria fieramente osteggiato dal padre per ragioni di casta.
Per la prima scena che decisi di scrivere, che volevo ricollegasse immediatamente gli eventi storici della spedizione dei Mille in Sicilia con l’universo dell’Opera dei Pupi, ho tenuto conto di quanto raccontano le cronache su alcuni dei primi pupari siciliani e sulle attese e reazioni del loro pubblico alla venuta di Garibaldi in Sicilia. Gaetano Crimi, “il grande genitore” dell’Opira catanese, era un fervente patriota. Gaetano Greco, uno dei padri fondatori dell’Opra palermitana, aveva partecipato all’insurrezione del Quarantotto e, partigiano di Garibaldi, ne aveva favorito l’arrivo in Sicilia mettendo per la prima volta sulla corazza dell’Orlando palermitano la fascia col tricolore italiano per indurre il suo pubblico all’azione e si racconta che quando Garibaldi fece il suo ingresso a Palermo dopo aver vinto le truppe borboniche, prima ancora di entrare a Palazzo Reale, avesse chiesto di essere accompagnato all’Opera dei Pupi di don Gaetano. Nino Martoglio nel suo articolo “La fine di un teatro popolare: tipi e costumi siciliani”, pubblicato nel 1903 sulla rivista Il secolo XX Rivista popolare illustrata, riferisce che don Angelo Grasso, padre del puparo e poi grande attore Giovanni Grasso, rappresentava coi pupi una storia di Garibaldi. E il pubblico dei teatri popolari di quartiere amava vedere nei saraceni o nei traditori magonzesi i soldati borbonici, nei paladini di Carlo Magno loro fieri avversari i Mille in camicia rossa e in Garibaldi liberatore Orlando o addirittura San Michele Arcangelo. Dunque, come si vede, Garibaldi e l’impresa dei Mille furono da subito legati all’Opera dei Pupi e al suo pubblico, che risolveva come sempre le contraddizioni dell’esistenza quotidiana sperimentate nella prassi sul piano del simbolico, attraverso l’identificazione mitica del bene negli eroi paladini e del male nei loro avversari. Date queste premesse fu facile trovare la scena: quella di Rinaldo, il secondo paladino di Carlo Magno, che con sua sorella Bradamante e la schiera dei settecento (Don Trico, Don Cricchio, ecc…) combatte e sbaraglia i traditori magonzesi. Rinaldo e i suoi come specchio dei patrioti siciliani in febbrile attesa di Garibaldi, i Magonzesi come specchio della sbirraglia borbonica. Va aggiunto qui che un precedente analogo era già stato messo in atto da Garinei e Giovannini nella loro famosa commedia musicale Rinaldo in campo, per la quale essi vollero in tutte le loro edizioni la presenza della Marionettistica dei Fratelli Napoli e dei suoi pupi.
Nelle altre due scene volevo che i pupi rappresentassero sia il motivo psicoanalitico del figlio che per crescere deve simbolicamente uccidere il proprio padre, motivo latente nel dramma martogliano chiaramente esplicitato sulla scena dalle scelte registiche, sia la contrapposizione tra il vecchio don Blasco e i giovani Filippo e Maria, sia infine il motivo dell’amore contrastato per non appartenenza alla stessa classe sociale, risolto – alla siciliana e alla maniera di molte storie cavalleresche – con una fuga d’amore. Qui, oltre che dalla mia conoscenza e dalle mie preferenze per le storie dell’Opira catanese, fui orientato nella scelta dallo stesso Martoglio, che nel suo “Don Pricopiu ciciruni”, pubblicato tra il 1896 e il 1897 ne Il D’Artagnan, giornale satirico da lui fondato e diretto, ricorda la rappresentazione della morte di Erminio della Stella d’Oro all’Opera dei Pupi di Giovanni Grasso e le reazioni del pubblico popolare al temuto e luttuoso evento. Ecco: le scene dovevano essere cercate nella bellissima e da me amatissima Storia di Erminio della Stella d’Oro, il ciclo catanese più rappresentato dopo la Storia dei Paladini di Francia. Su chi per primo abbia escogitato la storia, sulle fonti da cui questa fu tratta e sulla sua diegesi per motivi di spazio qui non dirò, rimandando i lettori più curiosi al mio Il racconto e i colori edito da Sellerio nel 2002. La parte della storia che più si prestava al nostro discorso era l’antefatto: cioè l’amore nato tra il duca Oronzo di Scevorin e la principessa Glariana, figlia del fiero e saggio, ma autoritario e implacabile imperatore Valdemiro di Berlino. Questi, con pugno di ferro e indiscussa autorevolezza, ha da poco riunificato sotto la sua bandiera tutti i vassalli dell’intera nazione germanica e li ha riuniti in una dieta a Berlino. In quest’occasione nasce l’amore tra sua figlia Glariana e il duca Oronzo. Essi sanno che il loro sentimento sarà fieramente osteggiato da Valdemiro, che vuole maritare la figlia con un sovrano di pari grandezza. Perciò Oronzo fugge con Glariana in Scevorin e qui la sposa. Valdemiro, per punire la disobbedienza della figlia e del vassallo, invia contro di loro il generale Sciantivaude, fiero, implacabile e risoluto come il suo imperatore. Sciantivaude vince in duello Oronzo, non si piega nemmeno alle preghiere di Glariana e sta per uccidere lui e mettere in catene lei, quando giunge provvidenzialmente a salvarli l’esule sultano Oronte del Marocco, che sostiene le ragioni dell’amore sincero contro quelle del privilegio di casta e bastona e mette in fuga Sciantivaude. Valdemiro diventava così il facilmente identificabile specchio di don Blasco d’Alagona, poiché come lui non tollera né accetta l’amore dei due giovani, ma soprattutto la distanza sociale che li separa ed è più che mai deciso a non derogare dai suoi principi. Oronzo e Glariana erano lo specchio di Filippo e Maria e consentivano inoltre un bel gioco d’inversione: nella Storia di Erminio è Oronzo di rango sociale inferiore ed è lui che conduce Glariana a un mutamento di visione del mondo, mentre ne L’ultimo degli Alagona questi sono tratti distintivi di Maria. Trovate le scene adatte, devo dire che per me è stato un vero e intimo piacere scrivere la breve scena d’amore tra Glariana e Oronzo, dove le parole della principessa vogliono esprimere alla maniera del racconto puparesco di cavalleria la maturazione di una nuova visione del mondo, e la scena del duello di Oronzo e Sciantivaude, della vana richiesta di pietà di Glariana e infine del dialogo e successivo duello di Oronte col generale berlinese. Quest’ultimo contiene una delle più belle “sticomitie” di tradizione dell’Opira catanese, per la cui stesura mi sono servito della redazione elaborata da don Raffaele Trombetta, generosamente messami a disposizione da Nino Amico, discendente di Gaetano Crimi e grande memoria storica dell’Opera dei Pupi catanese, recentemente scomparso il 28 febbraio di quest’anno.
16 Maggio 2021, giorno dell’Ascensione Alessandro Napoli
I pupi delle storie dell’Opira catanese.
In ordine di apparizione:
Rinaldo, principe di Montalbano
Capitano magonzese I
Soldato magonzese I
Soldato magonzese II
Soldato magonzese III
Bradamante, la Tigre di Montalbano
Capitano magonzese II
Soldato magonzese IV
Don Trico, della schiera dei Settecento
Oronzo, duca di Scevorin
Glariana, principessa imperiale di Germania
Sciantivaude, gran generale degli eserciti imperiali di Germania
Oronte, spodestato sultano di Marocco
L'ultimo degli Alagona. Anzi, no: il Primo... e la Prima - di Nino Bellia
Una chiamata di Fiorenzo Napoli è sempre occasione di vera gioia e, lo ammetto, di malcelato orgoglio per me. Da quella prima conoscenza, anni fa, in occasione degli spettacoli e dei laboratori dedicati agli alunni di una scuola, fino alle collaborazioni per “Tutta un’altra Storia” e per “Sperduti nel buio. ‘Ntra lustru e scuru”: un crescendo di intese, simpatia, profondo rispetto e stima reciproca con ogni componente della famiglia e della Compagnia. Stavolta il Direttore della Marionettistica, depositario e traghettatore della tradizione e dell’innovazione dell’Opera dei Pupi di Scuola Catanese, mi invita a una riunione di lavoro nella Casa-Bottega di via Reitano, scrigno di ricordi familiari, officina di magiche alchimìe, domestico erettèo di arti antiche ed attualissime, dove stabilmente dimorano le Muse “ispirattrici” (sì, in questo caso, anche con due -tt- la parola è correttissima…), custodi del variegato popolo di legno, stoffe, metallo, fili e aste, d’infinite, meravigliose istorie (e io prima o poi mi ci farò carcerare dentro per una notte intera, da solo coi Pupi, ad ascoltarci a vicenda!). Così, mi ritrovo intorno a un tavolo, buon ultimo tra cotanti Cavalieri, sotto lo sguardo vigile di Re Senapo (che sarebbe pure cieco!), di Orlando, Bradamante, Carlo Magno, Angelica, Rinaldo e Malagigi (“No! Maestro è solo Malagigi!” sentenzia – ma, a giudicare dalla mia pertinacia, invano!- ‘ddu certu prufissureddu, quando io gli do del “Maestro”… ). Ci sono quasi tutti, i Napoli: Fiorenzo e Agnese, Pino, Alessandro, Davide, Dario, Marco… E insieme, come congiurati per un complotto d’arte, siedono allo stesso tavolo Elio Gimbo, geniale e visionario regista di Fabbricateatro, Bernardo Perrone, scenografo di talento e dal gusto raffinato, l’aiuto regista, nonchè abilissimo fonico, Simone Raimondo… E Cinzia, naturalmente! Cinzia Caminiti, genuina interprete del canto di tradizione popolare, donna di teatro impetuosa e commovente, autrice lei stessa. Più avanti, alla bella compagnia si uniranno Giacomo Anastasi, “maniante” per elezione e discendenza, e poi gli attori, Lucia Portale e Francesco Bernava, che con la loro presenza scenica e la loro bravura faranno lievitare ancora la qualità della compagine. E io? Quale sarà il mio posto in questo incantato stagno dei cigni (no, non Stravinskij, semmai Andersen…). Di comune accordo, mi si chiede di curare l’adattamento de “L’ultimo degli Alagona” di Nino Martoglio, per un’originale messa in scena coi Pupi, impresa che condividerò con Alessandro Napoli: riduzione da tre a un atto unico, “agganciamento spaziale” (e temporale) dei codici dell’“Opira dê Pupi” con quelli del teatro classico, espedienti narrativi e simbolici per collegare i due piani di interpretazione e di lettura, espansioni poetiche nel rispetto dell’impianto e dei contenuti originali.Veramente un grande onore. E se in un momento così delicato e agognato di ripresa delle iniziative e degli spettacoli aperti al pubblico, la proposta di collaborazione si innesta in un progetto del Teatro Stabile, con tutto il suo prestigio e con tutta l’autorevolezza dell’attuale conduzione e gestione, in me l’onore e la gioia evolvono in responsabilità di scrittura e di immagine. Sì,va bene, o.k., signor Regista, vengo al dunque… Dunque: un dramma inedito di Nino Martoglio, scritto in italiano, ma appassionatamente – ostinatamente, direi – radicato nella sua Sicilia e ambientato in un’epoca di mutamenti epocali, come ai tempi dell’Impresa dei Mille. Che cosa avrà immaginato il grande Autore belpassese nel polveroso archivio del Palazzo di via Maqueda, in una Palermo ancora per poco borbonica? Con intelligenza penetrante e potente senso drammatico, don Ninè si pone in ascolto del Principe Blasco, del suo travaglio, prima che storico e sociale, intimo e personale. Con altrettanta chiarezza e tragica evidenza percepisce l’irruzione di tutto il “nuovo” che urge e che invade, che si insinua e straripa come un fiume in piena, fra quelle pareti e fin dentro le stesse vene degli Alagona. Suo figlio Filippo, unico erede del titolo e del patrimonio, ma soprattutto dell’identità immutabile su cui riposa da sempre il potere della Casata, aderisce alle aspirazioni degli insorti e addirittura si innamora della figlia di un contadino, rivoluzionaria anche lei. Per Blasco è troppo, una situazione insopportabile, davanti alla quale chiudere gli occhi fino al punto da accecare veramente (e riecco il re Senapo…). Però, tutto questo, Nino Martoglio lo immagina dalla sua casa romana… Troppo distante. Occorre qualcuno che vada per suo conto a Palermo, a sentire, a prendere visione di persona, un inviato speciale, un catanese d.o.c., attendibile e di buon senso, capace di intrufolarsi in mezzo alla gente, talmente simpatico e affidabile da farsi accogliere a Palazzo Alagona e da introdursi con discrezione felpata e vivace nei dialoghi e nei pensieri dei protagonisti. E chi meglio di Peppininu dô Furtinu? Peppininu scarpi ‘rossi e ciriveddu finu, Peppininu curiusu, ‘n occhiu apertu e l’autru ‘nchiusu, emblema di una catanesità popolare, saggia e positiva. Ora, bisogna sapere che il Signor Martoglio e Peppininu dô Furtinu si erano già conosciuti, quando il Pupo di Catania, insieme a don Procopio e a Cicca Stonchiti, arcinote creature martogliane, partecipò al risveglio nonchè al recupero della memoria del grande Scrittore, tragicamente precipitato- e non si sapi comu…- sul fondo di un vano montacarichi dell’Ospedale Vittorio Emanuele. Peppininu, testimone diretto, auricolare e monoculare, si renderà conto delle correnti che nel 1860 agitano Palermo e la Sicilia, ma che in un primo tempo sembrano arrestarsi davanti all’ingresso di Palazzo Alagona, aggirandone il perimetro, come lingue di lava lungo i lati di un antico bastione, risparmiandolo e trasformandolo in isola verdeggiante, in una fertile dàgala. La presenza del piccolo ospite etneo è sistematicamente ignorata dal Principe che vive da autorecluso nel suo bunker, in mezzo alle vecchie carte, intento e protervo nel conservare intatti patrimonio e autorità. E Peppininu, che assiste alle inestinguibili tensioni tra don Blasco e il Conte Federico di Chiaramonte, alle adolescenziali scaramucce con Artale, il fratello monaco, ai conflitti generazionali con Filippo, darà ragione a don Ninè per la felice e acuta intuizione sull’arrivo della famiglia Rao e sul nobile gesto di ospitalità nei loro confronti. E gli racconterà del fascino inedito di Maria Rao, ragazza siciliana di umili origini, bella come Angelica e fiera come Bradamante, una “pasionaria” ante litteram. Al suo illustre interlocutore “allittricutu”, il Pupo catanese confiderà la fatale attrazione provata da Filippo, unico rampollo di casa Alagona, per questa Maria. Ma la relazione che sboccia fra di loro non è solo una storia d’amore tra due giovani di condizione sociale diversa e inconciliabile. Contiene anche il seme di un albero mai visto prima, il germoglio di una nuova fioritura, quei frutti di libertà e di giustizia, che per maturare hanno ancora bisogno della poesia e del teatro, così come le piante hanno bisogno dell’acqua e della saja. E Peppininu fa di più. Ascolta qualcosa che al Signor Martoglio forse era sfuggito o che non aveva voluto immaginare: di Violante, presunta cugina catanese dello Scudiero di Orlando, trasferitasi in giovane età a Palermo e da sempre al servizio degli Alagona, ci confida l’intima condivisione delle sorti e delle vicende affettive di tutta la famiglia, ma fa trapelare anche le attese, pur deluse, e le speranze, pur tradite, ma non per questo abbandonate o negate. La benedizione di Violante ai due fidanzati supera ogni recriminazione, ogni avversione contro la mentalità arcaica del Principe, e schiude i cancelli del futuro. Così, se Martoglio indugia di più sul dramma di don Blasco, noi puntiamo il nostro sguardo verso l’orizzonte di Filippo, primogenito di una diversa nobiltà siciliana, e di Maria, primizia di una nuova identità femminile, che sorprende per dignità ed emancipazione. L’ultimo degli Alagona, sì. Ma anche la Prima ed il Primo…
Nino Bellia