Un uomo che si crede Cristo, un uomo che finge di essere Cristo, un povero cristo. Tutti plausibili, legittimi, connessi e inestricabili lati di una “forma” schizofrenica che la figura del performer stratifica sulla scena come su di un antico palinsesto; con il suo corpo e la sua voce, nel suo corpo e nella sua voce.
Un uomo dotato di autoironia e di dubbi, un poco smemorato e anche vanitoso, che forse soffre di un disturbo di personalità multipla. Un corpo che si muove, deambulando in una scena casa/appartamento/palestra attraverso dei quadri scenici che si susseguono senza soluzione di continuità.
Un corpo che utilizza e anche distrugge oggetti; oggetti trasfigurati nella loro quotidianità come una bici usata allo stesso modo che nella “passione vista come corsa ciclistica in salita” di Jarry. Quadri di una dubbiosa saggezza, nell’ironico doppio significato di saggezza che viene dal dubbio e di dubbio che questa sia saggezza.
Il Cristo immaginato dal personaggio uomo in scena non è certo l’essere unico, che ha segnato uno spartiacque nella storia dell’umanità ma si trasforma in una moltitudine, per cui vale quello che dice Hampâté Bâ nella lingua bambara del Mali «maa ka mmaya ka ca a yere kono»: “le persone di una persona sono numerose in ogni persona”.
Nella nuova creazione di Roberto Zappalà non si accenna alla più grande storia mai raccontata, dal titolo del film di George Stevens, né si vuole aggiungere alcuna, per quanto piccola, nota a margine all’assordante rumore audio/video che più di duemila anni hanno prodotto sull’argomento.
Si propongono delle visioni fatte di immagini, suoni e parole che lasciano libera l’immaginazione e che hanno come centro propulsore il corpo del performer. Alle origini del cristianesimo, esisteva una contrapposizione tra coloro che avevano o meno conosciuto Gesù. La conoscenza kατά σάρκα, (“nella carne”), cioè attraverso il corpo, dal vivo come diremmo oggi, dava maggiore autorevolezza nelle continue dispute e lotte di potere di un cristianesimo ancora agli albori.
Il corpo e la “carne” del performer e i testi proferiti, sono la chiave di volta che regge e sospinge la creazione. Il performer scelto da Zappalà, non recita, ma reagisce; le parole sono una conseguenza di quello che il suo corpo attua in scena. Immagini e suoni accompagnati da parole che non sono (tranne in un caso) quelle dei vangeli.
Parole di autori fra i più disparati che convergono nella voce e nel corpo del performer in scena. Parole che interrogano e sconcertano, che creano cortocircuiti del linguaggio, condivisibili o meno, che non possono essere sfruttate e prostituite per alcun fine, come troppo spesso è stato fatto e si continua a fare con quelle del Cristo. Un montaggio (e smontaggio) di pensieri, citazioni, frasi, aforismi, versi, interviste. Parole di: Kurt Vonnegut, Charles Simic, Wisława Szymborska, Stanisław Jerzy Lec, Michel Tournier, Quino, Gianfranco Ravasi, Olga Tokarczuk, Ryszard Kapuscinski, Richard Feynman, Amadou Hampâté Bâ, Leonardo Sciascia, Daniel Marguerat, Paolo Poli, Stephen Hawking, Jimmie Durham, Blake Edwards, Ron Padgett, Wystan Hugh Auden, Mario Savio, Milan Kundera, Fernand Deligny, Ernest Hemingway A cura (e con i raccordi) di Nello Calabrò.